Riina non è morto

    Dicono che è morto, ma è più vivo di prima che morisse. Non si è parlato d’altro, tra chiacchiere da bar, giornali e speciali televisivi, si tiene vivo il suo ricordo, si discute se sia giusto che abbia un funerale, si parla si parla si parla.

    C’è libertà di parola e libertà di stampa. C’è il diritto di fare notizia. Il popolo deve sapere, dicono.

    Lo chiamano Totò, con un nomignolo, ma il suo nome è Salvatore, il suo nome è nessuno. Lo chiamano boss e capo, anzi il capo dei capi: lo mitizzano. Gli dedicano una serie tivù e ne parlano al telegiornale, dicendo che quando l’hanno mandata in onda lui la vedeva.

    Non mi sono mai informato di lui, eppure so molto, anzi troppo. Perché dovrei farlo? Perché dovrei informarmi su quanti omicidi abbia commesso o in che modo?

    Ho sentito che con la sua morte ha vinto lo Stato ed è morta la mafia, come se con la morte di Paolo Villaggio sia morta la comicità, come se con la morte di Dante Alighieri sia morta la letteratura. Lo Stato ha vinto nel momento in cui l’ha catturato, lo Stato ha perso nel momento in cui gli dà risalto.

    Un giorno succederà che i nostri figli studieranno sui libri di scuola il nome di Totò Riina e non sapranno mai i nomi dei Carabinieri che l’hanno catturato. Diventerà un esempio per quella mafia che dicono sia morta.

    La verità su di lui nessuno la dirà mai. Non diranno che era una persona debole, non diranno che soldi e potere spesso sono sinonimi e che lui, come molti, aveva bisogno di entrambe le cose per sentirsi al di sopra. Si è nascosto per anni, vivendo al buio, nascondendosi nelle campagne, nei rifugi, per poi essere catturato e finire la sua vita in una cella, ma continueranno sempre a chiamarlo “il boss”, perché è questo che fa un vero capo. Varrebbe la pena di vivere una vita così?

    Quanto è difficile premere un grilletto? Molto meno di quant’è difficile non premerlo, molto meno di quanto sia dura tenerla in vita una persona e la sua integrità.

    I boss sono le nostre madri e i nostri padri, i nostri nonni, quelli che stavano nelle campagne sì, ma alla luce del giorno. I capi siamo noi quando cominciamo una nuova giornata senza la paura di nasconderci, quando salutiamo il postino, quando ricambiamo un sorriso, quando diamo una pacca sulla spalla, quando facciamo l’amore per dare la vita e non la togliamo a nessuno.

    I capi siamo noi quando non parliamo delle gesta eroiche di malviventi, quando stronchiamo sul nascere quello che vogliono suscitare in noi: la paura. Siamo noi quando l’unico delitto di cui ci macchiamo è quello di uccidere il ricordo di persone come lui, quando non abbiamo bisogno di rievocare il male, per sentirci dalla parte del bene.

    È giusto che l’umanità riconosca i propri errori, per farne tesoro e non commetterli nuovamente. È giusta la memoria quando non significa infossarsi nel passato.

    Se sentiamo il bisogno di parlare di argomenti del genere, parliamo di coraggio, giustizia, amore. Se dobbiamo fare dei nomi, pronunciamo quelli di Borsellino, Dalla Chiesa, senza necessità di celebrare giornate della memoria, con stupidi minuti di silenzio con le facce da idioti a fissare muri bianchi dietro le cattedre a scuola o il televisore nell’attesa che l’arbitro dia il calcio d’inizio.

    La memoria si vive dentro, non è uno strumento per mettersi in mostra. Abbiamo mai ringraziato in cuor nostro quei Carabinieri di cui parlavamo prima? Anche se non ne conosciamo i nomi. Abbiamo mai ringraziato in cuor nostro tutte le forze dell’ordine che, nel passato e nel presente, vegliano sulla nostra sicurezza?

    Nessuno girerà mai un film sulle nostre vite, questo non significa che non possano essere considerate esemplari, giuste, integre. La vera integrità, morale e civile, sta nel fare la cosa giusta con la consapevolezza che nessuno saprà mai se tu l’abbia fatta oppure no. Non è una gara, giochiamo tutti la stessa partita.

    Eliminiamo il mito del cattivo, solo così moriranno le sue memorie. 

    Non illudiamoci di sconfiggere la mafia, parlando perennemente di mafia.

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