Elio Piccon sarà ricordato al Tempio di Arcadia

Girò, tra le altre cose, l'Antimiracolo in varie località del Gargano

Elio Piccon, il regista del film-cult "L’Antimiracolo" e di tanti corti girati tra il 1965 e il 1970 in varie località del Gargano, sarà ricordato dalla figlia Natalia l’11 agosto a Peschici e il 12 agosto a San Nicandro Garganico al Caffè letterario "Il Tempio di Arcadia".

«Uno degli autori più incomprensibilmente ignorati del frastagliato panorama cinematografico italiano si chiama Elio Piccon. Possiamo comprendere che, all’uscita de "L’Antimiracolo", il pubblico (e la critica, per non parlar della censura) potesse digerire malvolentieri un’opera così straziante, sublime, crudele e personale. Ora, però, crediamo sia tempo di metter fine a questa colpevole amnesia.

Per realizzare “L’Antimiracolo”, Piccon, nato a Bordighera, si trasferisce nel Gargano, sulla laguna di Lesina, senza uno straccio di soggetto e sceneggiatura, e vive lì tre mesi prima di girare un metro di pellicola. Sceglie interpreti non professionisti, li fa parlare nella loro lingua, li filma nel loro mondo. Praticamente senza troupe, arriva a girare, in un anno di lavoro, ventimila metri di pellicola. Il risultato è deflagrante».

Così Andrea Meneghelli, curatore de “Il Cinema Ritrovato 2012”, una rassegna della Cineteca di Bologna, da 25 anni impegnata nell’arduo compito di riscoprire, riproporre, far rinascere “il cinema che è stato”.

«Stavolta – commenta Davide Turrini sul “Fatto Quotidiano” – a Bologna non c’è stato bisogno di grandi nomi. Sono bastati quelli piccoli, misconosciuti, dimenticati di documentaristi come Elio Piccon a rendere viva e pulsante la sezione, seguitissima in termini di pubblico, del “Cinema documentario invisibile”. (…) Le pellicole, corti di dieci-quindici minuti, provengono per la maggior parte dagli anni a cavallo della fine dei cinquanta e dell’inizio dei sessanta, quando la sperimentazione faceva assonante rima con spettacolarizzazione e lo sguardo del documentarista era di una purezza morale spesso abbacinante. Piccon e soci non hanno mai fatto gruppo, ma hanno viaggiato paralleli, osservando il boom del miracolo industriale del dopoguerra e perlustrando contemporaneamente le radici antropologiche di un paese come l’Italia, ricco di immense, e probabilmente intramontabili, contraddizioni sociali e culturali».

Natalia Piccon, leggendo gli appunti del regista, rievoca così la sua venuta sul Gargano: «Mio padre quando nel 1963 andò da Franco Cristaldi, gli disse: "Voglio girare nel Gargano". Non aveva una sceneggiatura e nemmeno un soggetto. Cristaldi gli rispose: "Qui ci sono i soldi. Torna quando hai finito". Prima di girare il film a San Nicandro Garganico, un paese dell’Italia a soli 350 Km da Roma, Piccon visse tre mesi con la popolazione del Gargano, conducendo la stessa vita quotidiana di quella gente».

"Solo così avrei compreso quel regime di esistenza contraddittorio nel quale, il vecchio e il nuovo, ciò che muore e ciò che nasce caratterizzano l’oggi della società meridionale" scrive nei suoi appunti.

Gli interessava lo scontro tra tradizione e innovazione, scontro complesso; voleva filmare proprio questa contraddittorietà, consapevole che “riprendere”, usando un’angolazione, un obiettivo … è sempre dare un’interpretazione della realtà.

In questo paese del Gargano, particolare, ma uguale a tanti altri, Piccon documentò la precarietà della vita, l’incertezza del futuro, le forze naturali e sociali incontrollabili, il folklore religioso del Sud: "Mi trovavo di fronte a della gente che aveva conservato una vita arcaica. La presenza di antichi comportamenti rituali rischiava di far vedere questa terra, del nostro paese, come una terra fuori dalla storia, ancora legata a pure “superstizioni” pagane, divertenti e pittoresche nelle loro manifestazioni". Bisognava cercare di capirle, dare loro un senso, per far comprendere agli italiani i significati impliciti di questi rituali.

Piccon voleva riportare questo “mondo” nella storia culturale italiana. Diceva: “Le immagini corrono, ma noi, che viviamo nel “miracolo” economico, non possiamo rimanere estranei rispetto a questa terra…”.

Le riprese durarono un anno; il regista, con la macchina da presa sotto il braccio e senza una “troupe”, girò 20mila metri di pellicola. Determinante fu la scelta di impiegare attori non professionisti (i pescatori del lago di Lesina) e di conservare i dialoghi originali. Per realizzare questo progetto, utilizzò obiettivi a lungo fuoco per non generare “timore” o “controllo” dovuti alla vicinanza della macchina da presa.

Durissimo fu il lavoro di montaggio e di sincronizzazione del parlato al momento della ripresa. “L’’antimiracolo” è commentato dalla voce fuori campo di un attore del calibro di Riccardo Cucciolla.

Il film presenta un documento di grande importanza etno-antropologica: la “Scuola del Pianto”. «Purtroppo queste riprese – commenta Natalia Piccon – sono state ampiamente tagliate dalla censura. Nel film rimane poco di quel raro documento filmato da mio padre, il “pianto rituale”, utilizzato nei paesi del Sud Italia per aiutare il soggetto a superare la crisi del cordoglio, seguendo precisi moduli di canto, pianto e musica, definiti dalla tradizione popolare. La crisi psicologica in questo modo si scioglie ed il soggetto torna, insieme alla comunità, a dare un “senso” concreto alla morte».

“L’antimiracolo” documenta anche la Festa di San Primiano, patrono di Lesina. Per questo straordinario evento si approntavano grandiosi festeggiamenti pirotecnici e musicali. La festa operava un singolare sincretismo pagano-cattolico, la collettività entrava in un tempo fuori dalla storia: “il tempo sacro”, durante il quale esplodeva, con moduli controllati, l’angoscia per la precarietà della vita, per l’incertezza del futuro, per l’indomabile natura. Si assisteva ad un ribaltamento dei normali comportamenti quotidiani dettati dalla cultura ufficiale della chiesa cattolica.

Caratteristici del periodo festivo erano il tabù del lavoro e la comparsa di elementi pagani, come divertimenti osé, gare a base di cibo, danze. La povertà di cibo della quotidianità era “annullata” da una gara in cui un enorme piatto di spaghetti veniva divorato velocemente dai concorrenti per vincere la gara. Scorrevano fiumi di birra… C’era anche chi cercava di raccogliere, con l’uso della sola bocca, a rischio di soffocare, le cinquecento lire nascoste in una ciotola colma di farina.

E in un paese dove le donne vestivano perennemente di nero, e in una condizione di sostanziale subalternità, gli uomini durante la festa potevano ammirare altre donne… donne venute dalla città, donne “odalische” che baciavano serpenti, evocando inconfessabili fantasie proibite.

Ma l’elemento centrale della festa di san Primiano consisteva in una raccolta particolare: per entrare in “contatto” con il “sacro” le donne della comunità attaccavano biglietti di carta moneta sulla statua del santo, utilizzando degli spilli. E una volta raccolti i soldi ( superiori a quelli versati per pagare le tasse!), reclamavano a gran voce i “sacri” spilli che, a contatto con il sacro, erano divenuti “reliquie”. Chi poteva, si permetteva un giro sulla giostra: dall’altoparlante una voce stentorea prometteva: “Sempre più veloci... col progresso!”.

“L’Antimiracolo”, unico film italiano in concorso nella sezione documentari (XVI Mostra Internazionale del Film Documentario) della XXVI Biennale di Venezia Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, viene premiato con la targa Leone San Marco. Il film, nonostante il premio, subirà importanti mutilazioni ad opera della Commissione di revisione cinematografica di primo grado, tali da rendere incomprensibili alcuni passaggi chiave.

Le lungaggini e le traversie censorie furono alla base dell’insuccesso del film che, anche a causa di una violenta campagna di stampa contraria, fu programmato soltanto in alcune città e nel mese di agosto.

Amareggiato dall’insuccesso del film, Piccon collabora dal 1966 con la casa di produzione San Paolo Film per la quale realizza i film “Fatima speranza del mondo” (girato a Peschici nel 1967), “La Scoperta” (1969) e “E voi chi dite io sia? ” (1977).

La passione per il Gargano resta comunque un punto fermo per il regista, che continua ad occuparsi di questa terra realizzando diversi cortometraggi: tra le opere più emblematiche “Cavalli ciechi”(protagonisti: i trabucchisti di Peschici) (1967), “Il Campo” (1968), “Statale 89″, “Checchella”, “Due Stelle” (1969), “Aniello e Neleta” e “Rimorso” (1970).

Elio Piccon, scomparso nel 1988, sarà ricordato dalla figlia Natalia in due eventi: l’11 agosto a Peschici (villa Comunale ore 20.30) e il 12 agosto a San Nicandro Garganico (ore 19.00 presso la Libreria-Caffè letterario “Il Tempio di Arcadia”, in località Due Pini).

Due serate davvero interessanti, specie per chi non conosce ancora la filmografia di questo regista, considerato dallo storico Filippo Fiorentino “un interprete accreditato del neorealismo e dell’identità garganica”. Fiorentino mise in risalto la grande “valentia” del regista ligure che portò all’attenzione nazionale un’altra Italia: l’incontaminato, e ancora selvaggio, promontorio del Gargano, una terra bellissima, afflitta da secoli dalla disoccupazione e dalla povertà, lontana anni luce dal “miracolo italiano” che si stava realizzando nel triangolo industriale e nel centro Italia.

Fonte: Teresa Rauzino per L'Attacco

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