La mamma e la tartaruga

    Il sole dei vespri, ormai basso all’orizzonte, avvolgeva di calore i loro volti, baciando la pelle che risplendeva come una pepita preziosa i colori del cielo.

    Mano nella mano, stavano passeggiando sul sentiero di ciottoli ed erba, seguiti alle spalle dalla loro ombra che formava una gigantesca “M”.

    «Hai sentito, mamma?» Indicò con l’indice il cespuglio ai piedi di un giovane castagno. 

    «Certo che ho sentito», rispose al bambino riempiendolo di curiosità, «dal fruscio non può che essere lei».    

    Sbucò dal groviglio di piccoli arbusti una testolina grigia. Con andatura lenta, tentava di azzannare un soffione poco più in alto.

    «Cos’è, un serpente?» chiese meravigliato dalla piccola creatura.

    «Non è un serpente» ribatté sorridendo. «Gli somiglia un pochettino ma, guarda bene Simone, porta con sé un guscio. Quella è la sua casa».

    «Che buffa!» ridacchiò guardando la mamma. «Posso accarezzarla?»

    «Ci possiamo provare».

    Trascinandola per il braccio, fece i pochi passi che li separavano dal cespo di gran fretta, per la curiosità e la voglia di scoprire qualcosa di nuovo.

    «Come si chiama?» domandò chinandosi sul piccolo animale.

    «È una tartaruga».

    Con uno scatto fulmineo, ritrasse la testa sotto il carapace, sibilando con le narici una sonora sbuffata.

    «Mi ha fatto spaventare!» esclamò scoppiando a ridere di gusto.

    «Anche lei si è spaventata». Sorrise.

    «Ma io volevo solo accarezzarla».

    «Certo tesoro, ma lei non lo sa. Però puoi sempre riprovarci di nuovo».

    Guardinga e titubante, tentò di completare il suo pasto tirando fuori la testa a piccoli scatti incerti, mentre Simone, affascinato dal rettile, riprovò nella sua missione.

    «Guarda mamma, si lascia accarezzare!» Sprizzava felicità da tutti i pori.

    «Hai visto? Le sei simpatico». Poi continuò: «Mi allontano un attimo, faccio in fretta».

    Fece qualche metro nella vegetazione per procurarsi una piccola tavola di legno, sbirciando di tanto in tanto in direzione dell’albero. Scrutando nell’erba alta, trovò subito qualcosa che faceva al suo caso, accompagnata dalle risate del bambino divertito dagli scatti della tartaruga che ritraeva ritmicamente una zampa dopo qualche carezza un po’ più decisa o maldestra.

    Tornò dal figlio, raccolse una pietra dalle dimensioni di un palmo per farne da fulcro e adagiò sopra la tavola appena raccolta.

    «Guarda bene, Simone». Prese la tartaruga e la poggiò davanti.

    «Hai costruito un’altalena a dondolo per farla giocare?» interrogò divertito.

    «Più o meno, come quella del parco giochi».

    La tartaruga si arrampicò senza poca fatica, dovendo stendere al massimo le zampe posteriori per adagiarsi completamente sulla tavola.

    «Fa finta che questa tavola sia tutta la vita della tartaruga», esordì. «Una tavola da percorrere per la sua interezza, per tutti gli esseri viventi, noi compresi. Il momento più difficile sta nell’arrampicarci, prima ancora di cominciare il nostro cammino, quando nasciamo, e probabilmente sarà difficile anche quando dovremo scendere».

    Seduto a terra con le gambe incrociate, guardava attentamente il rettile che s’incamminava in avanti, con le parole della madre che gli facevano da sottofondo.

     «Le tartarughe sono esseri straordinari. Vivono umilmente sulla Terra da migliaia di anni, riuscendo a sopravvivere a tutto. Osservala bene, compie progressi solo quando tira fuori il collo: lo ha fatto per mangiare, per camminare e anche per farsi dare una carezza da te, anche se ancora non ti conosceva. Adesso ha un nuovo amico».

    Il bambino rise a quelle parole.

    «Ti auguro di avere la stessa tenacia di una tartaruga».

    «Ma io non ho il guscio, mamma» la corresse divertito.

    «È vero, ma come lei, devi cercare di essere a tuo agio con te stesso. Un giorno capirai». Gli arruffò i capelli.

    Il piccolo animale continuava nella sua salita.

    «Ce la farà?» domandò quasi preoccupato.

    «Certo che sì. Non sono le più veloci tra gli animali, ma non si fermerà fino a quando non avrà raggiunto il suo obiettivo». Poi aggiunse: «Dovremmo farlo tutti. La vita è come questa tavola di legno. Nulla è facile, niente è impossibile. 

    Andando avanti, la salita diventa sempre più ripida e, quante volte avremo la tentazione di voltarci indietro e lasciar perdere, ma bisogna farcela, come sta facendo questa tartaruga. Sarà ancora più difficile arrivati in alto, quando gli equilibri cambiano e comincia la discesa. Bisogna riprendere fiato e riassestare le forze per raggiungere la radura in fondo al sentiero.

    Quante volte ci guarderemo alle spalle, guarderemo il passato con nostalgia, evocando i ricordi delle cose belle, come questo giorno. Quando, indaffarati a pensare quanto sia difficile la salita, non godremo di quegli attimi. La vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti, per questo non c’è da sprecare un solo momento di quanto abbiamo a disposizione».

    Con un piccolo tonfo, la tavola cambiò verso.

    «Evviva, ce l’ha fatta a salire! Adesso può scendere» esultò Simone. «Ma dopo possiamo portarla a casa con noi?»

    «No, tesoro. Il suo posto è questo. Lei ha bisogno di vivere tra l’erba e gli alberi. Però possiamo venire a salutarla tutte le volte che vuoi».

    «Uffi! Allora dobbiamo darle un nome, altrimenti non saprà che siamo venuti a giocare con lei», rispose con un filo di broncio.

    «Certo. Come vuoi chiamarla?»

    «Stellina». Sorrise illuminandosi in volto.

    Terminata la sua calata, scese dalla tavola diretta verso un viluppo di margherite.

    «Ciao Stellina!» la salutò agitando il palmo della mano spalancata.

    Col sole al tramonto alle loro spalle e il cielo in una cornice di colori, continuarono per il sentiero verso casa.

    «Anche io voglio essere bravo a camminare come ha fatto Stellina» disse alzando lo sguardo verso sua madre.

    «Lo sarai di sicuro» ribatté prontamente.

    «E tu mi aiuterai?»

    Sorrise un attimo prima di rispondere.

    «Io e papà staremo sempre ai tuoi lati per non farti cadere».

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