Ngiulin Bbe’bbisc e Lazzar Battelò

Il libro Torre Mileto e dintorni, di Emilio Panizio, nel paragrafo intitolato “Autori locali”, evidenzia che “La nostalgia, in generale, è un carattere distintivo della letteratura locale. In particolare quel tipo di nostalgia che sconfina nella malinconia e nell’eterno rimpianto delle cose perdute e che mai più torneranno”. 

Tuttavia va rilevato che gli autori locali, nel narrare fatti storici del passato, hanno  completamente obliterato dalla memoria persone con disabilità psichica di varia natura e/o persone in condizione di marginalità sociale. Gente da cui prendere le distanze. Quindi, invisibili in quanto deboli e fragili. Persone che, seppur brevemente, in ogni caso meritano di essere ricordate. La conferma sta nel libro intitolato Polvere di stelle dove lo scrittore sannicandrese, Giuseppe Cristino, narra “La festa d’ottobre”: “In Fiera incontro un tale Angiolino, sbilenco nell’incedere, infagottato nel pastrano a grandi tasche ricolme, eterno zuzzurellone scaltrito dagli anni e dall’indifferenza umana “…. a zi monaca, az capisc e cotica no”. 

L’indifferenza rende perfettamente l’idea di un certo distacco che, una volta, la nostra comunità (ed in generale quella italiana) aveva nei confronti di portatori di disagi psichici e fisici. In ogni caso, Angiolino, incontrato da Peppino Cristino alla Fiera di ottobre 2002, era Ngiulin Bbe’bbisc’, il quale girovagava tutto il giorno in paese ed era frequentatore della sartoria di G’nett u sart. Tant’è che u pastran a grandi tasche indossato, era cucito nell’atelier (così definito da Emilio), il quale oltre ad essere una scuola di taglio e cucito, in realtà era una specie di teatro-terapia a cielo aperto dove gli apprendisti cuscj’tor (Lazzar d Nirz’ca, Sp’zzott, G’gin Cacciafum, Zarin u Sicc, Giu’uann Menavent, T’ttin u Napul’tan, ecc.) oltre ad imparare il mestiere, recitavano sulla scena facendo gli scherzi più variopinti a Ngiulin Bbe’bbisc’.

Uno degli scherzi che si faceva più frequentemente consistiva nell’attaccargli dietro al cappotto, all’altezza dello spacco inferiore, delle pezze strette, lunghe al punto da strisciare per terra le quali, allorquando Ngiulin Bbe’bbisc’ usciva dalla “puteca”, venivano accese prendendo fuoco. Appena però sentiva odore di bruciato (puzz’ e iarz) tornava dentro la sartoria e, bestemmiando faceva spegnere le pezze. Nondimeno, se u pastran risultava danneggiato veniva riparato immediatamente. Quindi, anche se in generale viveva nel disinteresse collettivo, nel predetto atelier sicuramente no. Vero è che gli facevano scherzi. Ma è anche vero che la colazione (pan e p’mmdor) si divideva sempre a metà con Ngiulin. Erano tempi in cui a San Nicandro i livelli di solidarietà raggiungevano vette oggi sconosciute ed inarrivabili. 

Persino nei confronti di quelli che oggi diremmo “gli ultimi”, gli esclusi, in favore dei quali moltissimi sannicandresi non hanno mai lesinato la loro immensa generosità. Ngiulin Bbe’bbisc il cappotto non lo toglieva mai, nemmeno d’estate quando era solito trasferirsi per due mesi a Torre Mileto. Aveva una  casetta in paese ma preferiva dormire sulla spiaggia accovacciato in qualche angolino più coperto dalla brezza notturna, coprendosi con il suo pastrano. Il fratello di Ngiulin Bbe’bbisc’ era benestante. Gestiva un mulino a Pizz Vov dove, dopo la macinatura del grano vendeva la farina sfusa o a sacchetti. Sapendo che erano affezionati a Ngiulin, e viceversa, un giorno si recò in sartoria affinché realizzasse la confezione di un vestito al fratello. Pagò in anticipo l’abito. Avevendogli sempre cucito i pastran, non fu difficile realizzare l’opera. A San Nicandro, all’epoca, c’era una specie di pizzeria/trattoria dove si faceva anche la doccia. Cosicché, nonostante la riottosità, dopo aver tanto insistito si riuscì a farlo lavare per bene ed a fargli indossare il primo abito della sua vita. Una gioia infinita che, purtroppo, durò un giorno solo. Il vestito nuovo non faceva per lui. 

Torniamo all’inizio, “…. a zi monaca, az capisc e cotica no”. Era un ritornello che Ngiulin Bbe’bbisc’ ripeteva spesso poiché rappresentava una storia vissuta personalmente. Negli anni 60/70 a San Nicandro nelle falegnamerie si usava pulire ed oliare le seghe con il grasso delle cotiche di maiale. Un falegname di nome M’lion –aveva la falegnameria a Pizz Vov-  gli diede l’incarico di andare dalle Suore Riparatrici del Sacro Cuore di Gesù, sul Corso, per farsi dare le cotiche di giornata, avanzate in cucina. Ngiulin Bbe’bbisc’ non scandiva bene le parole, farfugliava e bestemmiava continuamente sottovoce (questo è il significato di ...tazz). Alla suora che gli aprì il portone d’ingresso riuscì a fargli percepire soltanto il termine “tazz”. La suora gli chiese di spiegarsi meglio poiché non comprendeva cosa volesse e, in particolare … tazz, tazz, tazz. Ed ecco spiegato il significato della frase che pronunciò di ritorno da M’lion quando disse: “… a zi monaca, tazz capisc’ e cot’ca no”. Quando si dice la creatività! 

Un brevissimo ricordo di Lazzar Battelò. Disadattato, trasandato, maniche dei vestiti più lunghe, parlava in modo poco comprensibile, aveva un braccio leso più piccolo e corto, con la mano che, mentre camminava, ciondolava continuamente. Ma era pieno di cuore. Nel predetto atelier in passato avevano commissionato la realizzazione di divise complete dei vigili urbani. Da tempo negli scaffali della  “puteca” si conservava una divisa residuata, con il disegno appena abbozzato. Siccome Lazzar Battelò era un assiduo frequentatore della Chiesa di Sant Lazzar, venne ivi impiegato a fare il sorvegliante. Gli anziani ricordano che, all’epoca, la festa di San Nazario era un evento maestoso: per tutto l’Ottavario lo spazio circostante la Chiesa era stracolmo di bancarelle. Si suonava fino a notte tarda e si mangiavano specialmente turciunidd e sard arr’stut. Cosicché la sopracitata sartoria decise di confezionargli una divisa appropriata alla sua carica. Un successo senza precedenti. Lazzar Battelò diventò un’altra persona. Un figurino. Un’autorità con il berretto in testa nei confronti del quale si complimentavano tutti i sannicandresi, gli apricenesi, i lesinesi, quelli di Poggio Imperiale e di San Severo. 

Battelò impazziva di gioia. Senonché, per sdebitarsi della divisa ricevuta in regalo, tornò in sartoria dicendo “d sol’ta nc’ n stan”. Aveva portato una grandissima busta al cui interno c’era una quantità incredibile di candele, intere o a metà, che Battelò prelevò dalla Chiesa d Sant Lazzar. Che genialità! Chiaramente, le candele vennero riportate indietro e, alla fine, Sant Lazzar stesso sarà stato contento del gesto compiuto da Lazzar Battelò. 

Altre persone di diritto menzionabili, sono L’llin u P’tosc’, che p’ssiava sempre (p’s…. p’s…. p’s….), M’chel La Pecura (song am’r’canista e, quann vai a l’Amer’ca, pigghj l’apparecchista), M’chel Cic cic (che si arrabbiava quando i ragazzi lo stuzzicavano dicendo: u pupp … u pupp … M’ché … cian p’gghjat u pupp!), Rocchin (quasi sempre accompagnato dalla mamma) ed anche Pierin per i suoi continui sputacchietti. 

Concludendo. Per vivere una trascendenza che vada oltre le cose materiali, queste persone che presentano disturbi -spesso prive di risorse e svantaggiate- vanno comunque aiutate. Infatti, non abbiamo dimenticato che quando sta bene un disadattato, stanno bene i familiari, il condominio, tutto il quartiere. Le cose importanti della vita sono molto alte. Non sono alla mercede delle compere quotidiane. Ciò detto, per capire chi siamo e da dove veniamo, persino grazie alla loro memoria possiamo rielaborare il nostro vissuto.

Francesco Sticozzi

foto: cartolina del plesso scolastico di Viale V.Veneto (oggi tenenza Guardia di Finanza)

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