Occhi che fanno male, tradizione dell’affascinatura nel Gargano

A San Nicandro Garganico c’è un’usanza che ancora oggi resiste, anche se i tempi cambiano e la gente corre più di prima. È quella dell’affascinatura, un rito antico che parla di malocchio, di sguardi che fanno male, ma anche di fede e tradizione.

Chi è del posto lo sa: basta un piatto pieno d’acqua, qualche goccia d’olio e le mani di chi “sa fare”. Si guarda come si muove l’olio sulla superficie. Se si allarga, vuol dire che c’è il malocchio. A quel punto, con le forbici si “taglia” e si mormorano parole che non tutti possono conoscere. È un gesto lento, carico di rispetto. Si fa in silenzio, come se il tempo si fermasse.

Ma l’affascinatura non è nata qui. Viene da lontano, dal mondo dei Romani. La parola stessa, “fascinum”, in latino voleva dire incantesimo, ma anche protezione. I Romani credevano che lo sguardo potesse portare sfortuna e per difendersi portavano con sé piccoli amuleti, i “fascina”, simboli di forza e fertilità. Non era superstizione, era una forma di fiducia nelle energie che circondano l’uomo.

Nelle antiche Leggi delle XII Tavole si parlava già del “fascinare”, cioè del potere di incantare o danneggiare con parole magiche. Veniva punito, perché si temeva che potesse rovinare i raccolti o far ammalare gli animali. Insomma, il malocchio era preso sul serio, e il confine tra religione e magia era sottile.

Col passare dei secoli, quei riti si sono trasformati, adattandosi alla fede cristiana. L’acqua e l’olio, simboli di purezza, sono rimasti. Le parole sono cambiate, ma lo spirito è lo stesso: allontanare il male, anche solo per sentirsi più leggeri. In molte famiglie, le formule si tramandano solo a chi ha “il dono”. Non si scrivono, non si dicono a tutti. Si custodiscono come un segreto di famiglia.

L’affascinatura, oggi, non è più solo un rito contro il malocchio. È un modo per ricordare chi siamo. È la prova che, nonostante la modernità, abbiamo ancora bisogno di gesti che ci legano alla terra, ai nonni, a un passato che non vogliamo dimenticare.

Ogni volta che una donna o un anziano prende il piatto, versa l’olio e osserva, non sta solo cercando un segno. Sta ripetendo un gesto che ha attraversato i secoli, da Roma antica fino al Gargano. In quelle gocce che si muovono sull’acqua c’è la nostra storia, la nostra paura del male e la nostra speranza nel bene.

Forse è questo il vero potere dell’affascinatura: non quello di guarire, ma di farci sentire ancora parte di qualcosa più grande di noi. Un legame invisibile, che scorre da generazione a generazione, come l’olio sull’acqua che racconta, silenziosamente, il segreto di chi siamo davvero.

Jeremy Damaschino

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