L'effigie della Madonna in Corso Garibaldi

Al termine di corso Garibaldi, a San Nicandro Garganico, prima di svoltare a destra verso l’ampio parcheggio a pettine, adiacente l’austero Edificio scolastico che ospita la scuola Elementare, esattamente all’angolo dell’immobile adiacente il Bar Champs-Elisées, ad un paio di metri di altezza  dal marciapiede, è situata un’immagine  votiva che ritrae la Vergine Maria e il Bambino Gesù, cinti da una corona, su uno sfondo in maiolica.

Sfugge facilmente all’attenzione del passante frettoloso o distratto, ma leggendo l’indicazione “Corso Garibaldi”, un po’ più in basso, specialmente in pieno giorno, si può ammirare questa bella effigie che, già da bambino, notavo, essendoci passato davanti chissà quante volte, per andare verso casa mia o verso il  centro del paese, senza mai avere l’opportunità di conoscerne l’origine.

Da un recente contatto con Domenico Fallucchi, figlio di Nicola, ho appreso che quando suo padre e suo zio Michele acquistarono e fecero ristrutturare questo immobile, un tempo adibito a cinema all’aperto, fu proprio il papà, Nicola, per una sua devozione personale verso la Madonna, a voler far conservare in bella mostra l’immagine della Madonna, sul lato dove tuttora si trova. Poiché da cosa nasce cosa, ho scoperto anche l’origine di questa “edicola” votiva. Ecco come.

Nell’intento di approfondire alcune mie conoscenze sulle tradizioni sannicandresi, avevo sfogliato alcuni libri del caro e indimenticabile amico Enzo Lordi, una fonte inesauribile e preziosa su queste argomentazioni, quando, nel rimetterli a posto, riordinai  l’intero scaffale e mi capitò fra le mani il volume "Vincenzo Zaccagnino, la famiglia, l’uomo, il benefattore” scritto da Nunzia Marsilio e pubblicato nel giugno 2008 da Publigrafic, un regalo accompagnato da dedica, con stima, del caro amico Mario Ruscitto, curatore  e revisore del progetto grafico, che me lo fece pervenire affinché lo leggessi e scrivessi un articolo o ne parlassi alla radio locale.

Ricordavo di aver fatto tutto ciò e con piacere ho riletto alcune pagine che avevo evidenziato a matita e che riguardano proprio la Madonna dell’effigie all’angolo di Corso Garibaldi. Ho appuntato fedelmente il tutto: “Al tempo della vita di Don Vincenzino Zaccagnino (29-5-1860/14-1-1944) dove ora c’è l’entrata del “bar Gambero”, c’era U purton d’ la Madonna.

Vale a dire un’ampia porta di legno sottostante a un arco in pietra battuta accanto al quale faceva mostra di sé, ingentilendolo, l’effigie della Madonna della Santissima Annunziata che oggi è possibile ammirare, a mò di biglietto da visita, alla sinistra di chi la guarda, del locale al pianoterra... Un biglietto da visita, ho detto. Ma che biglietto! Sapete… quella vetusta immagine è da considerarsi, a buon diritto, storica. Infatti essa fu commissionata dal padre di Don Vincenzino,  don Raffaele  (13-10-1833/12-3-1919), ad una allora rinomata bottega d’arte che operava a Vietri sul Mare, nei pressi di Salerno.

Le mattonelle di maiolica invetriata che compongono il mosaico dell’effigie sono non solo di pregevole fattura, ma sono anche uniche perché tali le volle il commissionario, il cui figlio, Don Vincenzino, “gentiluomo di stampo inglese,  cuore, mente e stile di un vero mecenate del Rinascimento, un uomo superiore per signorilità e munificenza, l’incontrastato rappresentante di San Nicandro nell’Amministrazione  provinciale di Foggia”, elesse a simbolo della sua larga, ma mai millantata munificenza.

Era, questo, un portone che immetteva direttamente nell’orto del palazzo, oggi ex sede del Comune, e che veniva puntualmente spalancato al sopraggiungere di ogni festa, specialmente di quelle coinvolgenti l’intera comunità, a cominciare da quella dell’otto dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, e fino al tre febbraio, festa di San Biagio, giorno dell’ultimo fuoco.

Erano, questi, i giorni nei quali quel portone si configurava, nell’immaginario collettivo paesano, come una “porta magica” al di là della quale si innalzavano cataste di legna e di grossi ciocchi da ardere, alle quali, senza nessuna formalità, potevano accedere, se lo volevano, tutti, ma proprio tutti, i poveri del paese per prelevare legna e ciocchi: grandi e piccoli che fossero, ben tagliati, provenienti tutti dagli oliveti di San Nazario, da far ardere nel focolare della propria casa la mattina di Santa Lucia, nonché la notte di Natale, la notte e il giorno di Capodanno. Per devozione, certo, ma anche per il calore, la luce, l’allegria che essi, i ciocchi, avrebbero diffuso nelle case in cui essi ardevano”.

Altruismo, generosità sono, dunque, le doti del benefattore Don Vincenzino Zaccagnino, a devozione della Santissima Annunziata, rappresentata nell’icona di cui vi sto  parlando.

Ma quale fu il motivo della scelta di questo nome? La Marsilio, nel suo libro citato, chiarisce che sono due i motivi di tale scelta.

Il primo: “Il cavalierato di cui erano insigniti gli uomini della famiglia Zaccagnino era quello della Santissima Annunziata”. Di esso l’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani riferisce che “Il supremo Ordine della Santissima Annunziata è il maggior ordine cavalleresco della monarchia sabauda e del regno d’Italia, istituito nel 1364 da Amedeo VI di Savoia”. Costituito da 15 collari d’argento dorato per lui stesso e quattordici cavalieri da lui nominati, era una fratellanza cavalleresca, simile a quella dei Cavalieri della Tavola Rotonda”, fra giovani nobili, destinati a rappresentare, tutti insieme e virtualmente, i 15 misteri della Vergine e di questa i fedeli guerrieri.

Nel tempo il cosiddetto “Ordine del collare dell’Annunziata”, divenne accessibile solo ai cavalieri “de nom et armes” (di nome e armi) “sans reproche” (senza alcuna ombra di disonore), che con esso assumevano obblighi religiosi e morali. Con Vittorio Emanuele, nel 1869, ci fu una riforma radicale dell’Ordine, in senso liberale, togliendo la clausola della nobiltà dei natali e dei meriti militari: il collare diventò la suprema ricompensa per i personaggi segnalatisi per eminenti servigi resi alle alte cariche dello stato.

Il secondo motivo della scelta del nome della Madonna dell’Annunziata per l’effigie della famiglia Zaccagnino, scrive Nunzia Marsilio,  è dovuto al caritatevole quanto ammirevole tentativo di attuare nel loro paese d’origine, sia pure in piccola parte e con forme e modi diversi, la loro magnanimità.

Infatti, Mario Raffaele fondò l’Istituto delle suore riparatrici del sacro cuore di Gesù, ma soprattutto Don Vincenzo col suo testamento lasciò tutte le sue ricchezze ad una erigenda Fondazione intestata a suo nome per i bambini poveri di San Nicandro Garganico.

Nel libro Il Ventre di Napoli, Milano 1884, scritto da Matilde Serao viene citata la chiesa della S.S. Annunziata, a Napoli, dove si recano persone sterili per scegliere trovatelle o trovatelli da adottare e amare come se fossero frutto del proprio amore coniugale.

Inoltre, in “Luci ed ombre napoletane” (Roma, 1995) Salvatore Di Giacomo descrive l’animazione in piazza dell’Annunziata :“E’ un va  e vieni di plebe che ride, urla, gesticola, ride, applaude, canta, contende…. Il mondo racchiuso là dentro non è sconosciuto e la fantasia del viandante s’indugia nel considerare malinconicamente la sorte pietosa di quegli esseri ignari e abbandonati”.

Le  informazioni  sulla effigie della Madonna, fornite dal libro di Nunzia Marsilio, per quanto soddisfacenti, sembrano, comunque, discordanti con quelle desunte da altre persone anziane e di buona memoria, specialmente nel tipo di Madonna raffigurata (chi mi ha detto “del Carmine”, chi “del Rosario” …).

In conclusione, al di là del nome, ritengo significativi i valori morali rappresentati dall’immagine e  che hanno animato la famiglia Zaccagnino nel vivere prodigandosi per i più bisognosi tra i sannicandresi di un tempo; al tempo stesso  è davvero lodevole l’iniziativa di Nicola Fallucchi di farla troneggiare, in un angolo esterno della sua casa, a testimoniare la sua devozione mariana e a inculcarla alle future generazioni sannicandresi.

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