Alla nascita il teatro veniva considerato strumento di educazione della
collettività. I costi di una tragedia (per spese generali, costumi e compenso
degli interpreti) vengono sostenuti sia dallo Stato, sia da sponsor privati. Ai
cittadini meno abbienti il biglietto d’ingresso lo paga lo Stato. Tutto è
organizzato perché la tragedia sia un’esperienza condivisa. I tragici si servirono
del teatro come oggi ci si serve del giornalismo: per attaccare, mordere e
parodiare partiti, uomini ed idee. Il loro bersaglio fu la democrazia ed il suo
grande capo, Pericle, cui dovevano la loro esistenza. E forse proprio in questa
contraddizione sta il suo limite poiché, come tutte le attività culturali anche il
teatro necessita del finanziamento dello Stato. Ma non può essere ossequiente,
snaturandosi. Non sarebbe più teatro. E sottopone i potenti di turno ad aspra
contestazione. Non é che erano antidemocratici. I tragici erano soltanto degli
scrittori che cercavano il successo il quale, anche allora si otteneva con la
critica dell’ordine costituito, che era democratico. Di conseguenza, l’unico modo
di fare opposizione (che significa esercizio di un diritto democratico) era la
diffusione di un’informazione contraria, aristocratica e conservatrice. Di
implacabile denuncia. Esige libertà di critica. Insomma, carente il giornalismo,
il teatro è la sola arena su cui si può svolgere una battaglia di idee, di moralità
e costume. Dal superamento della predetta contraddizione nasce un
compromesso: la distanza tragica. Quello che deve andare in scena deve
essere lontano da ogni riferimento specifico a casi, a problemi che in quel
momento attanagliavano la città. Era una regola fondamentale. Il ché non vuol
dire che deve essere qualcosa che non interessa la città. Al contrario. Era
l’invenzione di un meccanismo, di un sistema per far sì che sempre
interessasse i problemi attuali della città. Solo che dovevano proiettarsi in un
tempo senza tempo com’è quello del Mito. E’ davvero incredibile l’attualità
delle tragedie elleniche, di cui Sofocle (Edipo re), insieme ad Eschilo (Orestea)
ed Euripide (Medea), è uno dei più grandi interpreti. Esse ci trasportano in un
universo mondo dove il comportamento dell’uomo è influenzato da offesa,
disonore, oltraggio, corruzione, pevertimento, vendetta, gelosia, possesso,
sangue, colpa, castigo divino, aspirazione a una giustizia divina. Non esistono
dei ed eroi che agiscono in nome del Bene e siano simboli di valori etici. Anzi.
La mitologia greca rappresenta tutti i vizi e le pulsioni dei comportamenti
umani, finanche di quelli più violenti e distruttivi. Essa ci fa fare un salto
indietro e avanti nel tempo, ci rende consapevoli della dimensione del nostro
essere umani e quindi cattivi. La capacità di esprimere il peggio quando invece
possiamo dare il meglio. E’ incredibile come richiamino casi di cronaca e
soprattutto di cattiveria dei nostri giorni. Ormai uccidere un padre, un figlio, un
fratello, una donna, ecc., é diventata una cosa quasi normale. L’immortalità
del Mito. In Atene del V secolo a.C. la tragedia è un rito popolare. Durante lo
spettacolo, dopo essersi sottoposto agli impulsi sfrenati e irrazionali che
albergano nell’animo umano, lo spettatore si sfogava in una forma innocua. Il
mezzo utilizzato per produrre questo effetto catartico era il Mito:
una narrazione fantastica concernente gli dèi, i semidei e gli eroi, usata
come espediente utile a collocare la vicenda in un passato lontano, che
fungeva da metafora per trattare temi e problemi concreti, attuali. Mediante le
metafore si parla copertamente, con allusioni più o meno velate a fatti, cose o
persone. I tragici per affrontare i temi del vivere usavano il linguaggio del Mito
perche è un linguaggio forte e semplificato, temi universali che sono presenti in
tutte le culture ed epoche. Tutti lo conoscono e ne riconoscono il valore. E’ la
bibbia del popolo greco. Quando gli episodi del Mito si snodano sulla scena, gli
spettatori -la maggior parte dei quali non sa né leggere né scrivere- solo
osservando possono capirne il senso. Guardare tali Miti significa guardare alle
sorgenti della narrazione e quindi la storia dell’umanità. Essi sono nati in un
tempo lontano, ma ci sono vicini, perché esprimono un rapporto profondo,
intimo, ancestrale tra il mondo e l’uomo, tra l’uomo e le sue pulsioni. Gli
antichi Miti, popolati da storie di padri che cercano di annientare i figli, figli che
uccidono i padri, madri private della maternità che si alleano con i figli contro i
padri, figli che amano le proprie madri, padri che amano le proprie figlie, sono
lo specchio della nostra esperienza inconscia. A tali narrazioni, cioè, ha attinto
la psicanalisi trasportando i Miti nell’esistenza contemporanea quali espressioni
patologiche ed oniriche dell’inconscio. Difatti, Froid individua nel complesso di
Edipo l’elemento universale del desiderio umano inespresso, tanto che
l’uccisione del padre primitivo sarebbe all’origine dell’umanità. Invece Yung
ritiene che i Miti siano delle finestre attraverso cui si osservano gli strati più
profondi della psiche individuale e collettiva. In definitiva, i Miti greci sono fatti
così. Ci parlano di noi com’eravamo ieri, come siamo oggi, come saremo
domani. Semplicemente perché dentro ognuno di essi c’è uno specchio della
nostra anima. Non esiste emozione umana di cui non parli attraverso i suoi
personaggi. Perché la distanza tragica, spostata nel tempo senza tempo del
Mito, è riferibile a qualunque situazione concreta, in qualunque parte del globo.
Ciò consente a quei Miti di essere riproposti oggi con la stessa attualità in
quanto rappresentano una specie di biblioteca in cui si custodice il tesoro
dell’umanità. Con una particolarità: il tesoro è inesauribile perché ogni epoca,
ogni autore, ogni lettore, ogni sofferenza vi può vedere qualcosa che è sfuggito
a tutti gli altri. Continuando così ad arricchire il tesoro. Recenti tendenze. Il
meccanismo inventato dai greci, basato sulla mitologia con annesse metafore,
viene riprodotto costantemente per mantenere il più possibile vivo e continuo il
tema del progresso umano. Oggi, negli scaffali delle librerie e nei teatri, i Miti
ellenici vivono una nuova fortuna. Fioriscono riscritture e rivisitazioni di varia
natura molte delle quali animate da spirito rivendicativo: ristabilire il punto di
vista femminile in una narrazione costruita ad uso e consumo di un universo
come quello della Grecia classica, in cui le eroine soffrono di una posizione
marginale. Cosicché le eroine vengono raccontate dal loro punto di vista
(Clitennestra, Elena, Medea, Antigone, Arianna, ecc.), facendole vivere
altrettanti capitoli di una storia delle donne finalmente equanime che solo
adesso si inizia a scrivere. Dopo secoli di racconti incentrati su dei ed eroi, oggi
si tenta di restituire alle donne dei Miti ellenici un’importanza pari a quella degli
uomini, infondendo nuova vitalità alle storie leggendarie. Ecco, fin qui tutto era
tranquillo e pacifico. Senonché è arrivata la classicista britannica Natalie
Haynes la quale, in parziale controtendenza, ha evidenziato come le figure
femminili sono complesse, non vanno banalizzate. La tradizione moderna,
pertanto, é la responsabile del cliché in cui le grandi figure femminili del Mito si
trovano incapsulate Haynes sottolinea alcuni macroscopici ma spesso sottaciuti
dati di fatto, come la dominanza delle donne e delle avventure amorose
–Penelope, Nausica, Calipso, Circe- nell’Odissea rispetto all’Iliade, votata al
racconto bellico. Oppure la prevalenza di nomi femminili nei titoli dei drammi
dedicati da Euripide alla guerra di Troia, sette su otto. Dunque, se la società
greca assegna alla donna una posizione periferica, le cose vanno in modo del
tutto diverso all’interno della narrazione mitografica. Se è vero che il racconto
mitico è stato scritto da uomini e rappresentato da e per uomini, è altrettanto
vero che nello spazio culturale e religioso –la cui cassa di risonanza è appunto
il Mito- la donna riveste un ruolo di elevato rilievo. In definitiva, occorrerebbe
riscoprire la complessità di questi personaggi poiché sembrano creature che
non hanno bisogno di riconquistare carattere. Insomma, a proposito del
recente trend di caratterizzare il Mito al femminile, sorge un dubbio: non è che
forse, a causa della sensibilità moderna, finiscono per perdere la loro originaria
grandezza, nascente proprio all’interno della società discriminante di cui erano
figlie? Che per sentirle vicino a noi, otteniamo un risultato opposto alle
intenzioni, rendendo loro un cattivo servizio?
(Indro Montanelli, Giulio Guidorizzi, Eva Cantarella, Giuseppe Zanetto, Cristina
Dell’Acqua, Antonio Scalzi, Corriere della Sera).
Francesco Sticozzi