Le parole raccontano leggono “L’ibisco viola”

Il gruppo di lettura approfondisce il libro di Chimamanda Ngozi Adichie

Guardare altrove, guardare dentro. L’Africa è questo. Ce lo hanno insegnato nei secoli, mai andarci dentro se non per prendere, impadronirsi, depredare, mai per attingere, mai per pensare che questa terra è la nostra terra ancestrale.

Allora ecco che finalmente ci arrivano voci potenti che ci entrano nella mente, nel cuore e negli occhi e che forse ci permetteranno di capire cosa non abbiamo capito e cosa continuiamo a non vedere.

Guardare dentro le pagine della letteratura africana, coloniale e post-coloniale, è doveroso non solo da un punto di vista letterario, ma anche necessario per non generalizzare sulla négritude, sul razzismo, sull’olocausto dei neri, sui conflitti di genere. È memoria fondamentale per non cadere nell’indifferenza o, peggio, nel negazionismo.

Portare in un gruppo di lettura il primo romanzo scritto da Chimamanda Ngozi Adichie, L’ibisco viola, è un invito a scoprire quelle altre potenti voci africane: Yaa Gyasi, Ahmadou Kourouma, Yewande Omotoso, Alain Mabanckou, Chinua Achebe, Ahmadou Kourouma, Amos Tutuola, Nuruddin Farah, Olaudah Equiano, Sédar Senghor, Ayi Kwei Armah, Aminatta Forna, Mariama Bâ, Wole Soyinka, Ngugi wa Thiong'o.

Guardare dentro, per non volgere lo sguardo, per non rimanere indifferenti.

Quindi entriamo ne L’ibisco viola e troveremo l’Africa post-coloniale, con le sue radici culturali e i legami della tradizione locale, ci scontreremo con i pregiudizi di genere e con gli strascichi dell’incontro tra le culture indigene e quelle occidentali che vengono enfatizzate nel ruolo del cristianesimo come strumento di divisione e indebolimento della cultura dei differenti gruppi africani.

Protagonista e voce dolorosamente narrante del romanzo è Kambili, tredicenne igbo - nigeriana. Già dalle sue prime parole noi lettori e lettrici sentiamo che stiamo attraversando una porta oscura e d’istinto vorremmo voltarci e scappare, ma Chimamanda Ngozi ci ha già catturati e, quindi, lasciamo le nostre premonizioni e paure, i nostri demoni e ci addentriamo…

L’universo di Kambili è la sua famiglia, dominata da un padre, convertito e fervente frequentatore della chiesa e dei preti, stimato imprenditore di successo, critico e temerario combattente della democrazia dalle pagine del giornale progressista che sovvenziona, nei confronti della politica del governo nigeriano.

Questo padre così amato da tutti, perché generoso e sempre disponibile ad aiutare gli altri, in realtà è l’orco delle favole. Kambili lo ama smisuratamente, fa di tutto per renderlo orgoglioso di lei, ma lui non cambia la sua ferocia in famiglia. È un uomo che detta regole, orari, obiettivi e compiti alla moglie e ai figli e guai a contravvenire, perché basta davvero poco per scatenare la sua ferocia fisica senza controllo.

Questa violenza fisica e psicologica ci fa tremare i polsi, ci fa nascere una rabbia dentro e vorremmo essere lì per difendere e sostenere le vittime innocenti. E invece, come nelle più brutte favole, percosse e soprusi continuano; le regole inesorabili e incontestabili rendono muti e oppressi i ragazzi e la madre. Ma, ecco la svolta, arriva la sorella del padre, che ha uno spirito indomito e cresce da sola i tre figli con amore, allegria ed armonia spirituale. La zia Ifeoma capisce e sa cosa succede e questa volta riesce a portare via con sé i nipoti.

“… Avevo sorriso, corso, riso. Il mio petto era pieno di qualcosa che sembrava bagnoschiuma. Leggero. La leggerezza era così dolce che la assaporavo sulla lingua…”

Comincia così un percorso di formazione che sovvertirà il destino della famiglia.

È un periodo breve quello a casa della zia e dei cugini, ma sufficiente per capire che c’è la possibilità di vivere in pace e armonia in famiglia, nella natura e nella spiritualità: non per forza i fiori di ibisco sono bianchi o rossi, possono essere anche viola, se ci si impegna nel prendersi cura del processo di ibridazione.

Sperimenteranno l’amicizia, l’amore, il gioco, una sana spiritualità e conosceranno le proprie radici culturali, diverse da quelle che il padre Eugene aveva inculcato loro. Il momento della svolta avviene durante una messa in occasione di una Domenica delle Palme, quando il fratello Jaja rifiuta di partecipare al rito dell’eucarestia e si ribella alla dittatura domestica, portando a un finale dolce amaro, necessario per poter rinascere a una nuova vita.

“La sfida di Jaja ora mi sembrava come l’ibisco viola sperimentale di zia Ifeoma: raro, con un sottofondo fragrante di libertà, un tipo di libertà diversa da quella che la folla aveva invocato a Government Square dopo il colpo di stato agitando rami verdi. Una libertà di essere, di fare”.

Un finale con colpo di scena, laddove sembra che i figli paghino le colpe dei padri e delle madri, è invece foriero di speranza e di cambiamenti. La forza dei giovani è proprio nel sognare e progettare il mondo migliore e nel mettere in atto forme di azione perché ciò avvenga.

Ognuno dei lettori del gruppo ha emotivamente partecipato con la storia e i protagonisti del romanzo, ognuno con le sue caratteristiche che ci hanno trovato d’accordo sulla potenza della narrazione e sulla limpidezza dello stile di Chimamanda Ngozi.

La Adichie propone una storia di “decolonizzazione della mente”, grazie anche alla forza degli altri personaggi, affinché sia i giovani che gli adulti gravitanti nell’universo Kambili prendano coscienza di sé come individui in grado di autodeterminare il proprio futuro: Jaja, Kambili e la loro mamma si emancipano da papà Eugene e imparano a vivere in armonia e tolleranza, oltre i freni della paura, proprio come la Nigeria sta tormentosamente imparando, in quel momento storico, a camminare sulle proprie gambe senza l’ombra del controllo britannico.

Chimamanda Ngozi Adichie ci racconta il contemporaneo africano, ma direi universale, secondo lo stile del romanzo realista europeo dell’800, compiendo una scelta di campo precisa ma varia nei suoi elementi: restituire agli africani l’orgoglio di un’appartenenza e di un’identità, guardare alle donne come soggetti di partecipazione attiva e competente, credere nel cambiamento.

Rosanna Piscitelli

 

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